<<…spregiarono l’astuzia,
avevano pensieri di violenza,
credevano di ascendere al potere
con la violenza senza darsi pena.
Ma molte volte Temi, mia madre,
Gea che ha molti nomi e una forma,
profetava il futuro, e mi diceva:
“Non di forza e potenza c’è bisogno,
ma il primo per astuzia sarà il re”>>
Eschilo, Prometeo incatenato
E’ un tema sempre molto dibattuto e sentito quello dell’educazione e, in particolare, del metodo attraverso cui insegnare ai bambini ciò che si deve o non deve fare, le regole cui attenersi, discernere il bene dal male. Cerchiamo di riflettere assieme alla nostra Psicologa Paola Olga Di Monaco.
“Negli ultimi due secoli si è sviluppato un filone di pensiero che ha messo in discussione il modello educativo violento sulla base di valutazioni ed osservazioni condotte da autori, educatori e pensatori, che con il loro contributo intellettuale e pratico hanno consentito a noi, oggi giorno, di avere importante materiale da approfondire e su cui basare ricerche attuali e complesse.
Alcune delle personalità cui mi riferisco sono, ad esempio, Marshall Rosenberg, Danilo Dolci, Alice Miller, Maria Montessori, che si sono spesi e battuti in favore di una modalità comunicativa tout court nonviolenta, di rispetto e accoglienza dell’altro nella sua totalità, con l’intento ultimo di non mortificare gli individui con cui ci si relaziona, bensì aprendo se stessi all’altro come forma evolutiva interpersonale e personale.
Cosa c’entra questo con le sculacciate? Dal vocabolario Treccani il termine Violenza è definito come “l’abuso della forza (rappresentata anche da sole parole o da sevizie morali, minacce, ricatti), mezzo di costrizione, di oppressione, per obbligare cioè altri ad agire o a cedere contro la propria volontà”.
Molti diranno: “ma se mio figlio non mi ascolta, come faccio a fargli capire che non deve farlo?” Crescere un bambino è un continuo zig zag tra i tempi di comprensione nostri e quelli di nostro figlio, e non è per nulla facile controbilanciare costantemente il nostro bisogno di conferme interpersonali di soddisfazione rispetto ai ruoli che rivestiamo (come quello di genitore) e l’ascolto dei bisogni profondi dei nostri figli.
L’ansia che ci assale quando nostro figlio non si comporta come desidereremmo, ci fa imbestialire e ci fa vergognare, ci mette davanti al fallimento di vedere la nostra creatura che fa tutto quello che, quando eravamo ignari e spensierati, pensavamo mai potesse succedere a noi. Dietro parole come queste non c’è solo astio, o antipatia, o arrendevolezza: c’è confusione, nel non aver alternative ritenute altrettanto efficaci come quella conosciuta; incertezza, nel potersi immaginare pionieri di una svolta educativa, quando “chissà che succede se lascio la strada vecchia per la nuova”.
Spesso si mescola violenza con disciplina, rispetto delle regole con rigidità, e la buona educazione dei bambini è utilizzata (e ancor più spesso) vissuta come metro di misura e valutazione sociale delle capacità educative dell’adulto-in-quanto-genitore. Quanto il bimbo si sappia comportare bene e sia “educato” è stendardo di quanto io, adulto, sappia fare il padre o la madre. Il paradosso implicito e distorto agli occhi del bambino è che non sono io, adulto, che rassicuro lui di aver un buon genitore: è lui che, essendo “bravo”, mi fa sentire competente.
Ho letto genitori aizzarsi contro gli psicologi che “ogni giorno si svegliano e ne hanno una nuova su come crescere i nostri bambini”, pedagogisti screditati che “tanto parlano solo dei figli degli altri, chissà a casa loro che fanno”. Sarà che sono professionalmente ed umanamente figlia di una scienza complessa e sfaccettata, ma non posso dimenticare, con mio figlio e con quelli degli altri, che esse sono creature della società, e che ad essa verranno consegnate, e che questo è il fine ultimo del compito del genitore che mette al mondo un figlio: renderlo consapevole, responsabile, libero.
Le famiglie che vedo si chiedono quale sia la strada migliore per affrontare situazioni di crisi e dinamiche relazionali stagnanti; nella mia esperienza ho notato che, all’inizio, i genitori arrivano chiedendo perché Mario si comporti così, come possono fare a far stare Federica in classe senza disturbare gli altri compagni, cos’altro devono inventarsi con Gianluca che reagisce con le sberle a chiunque gli dica “no”. Dopo un po’, con grande umiltà e amore, si chiedono: come possiamo migliorare? Di fondo, la loro preoccupazione è: come posso aiutare mio figlio ad essere un adulto sereno? Rappaport nel 1981 ha definito l’empowerment come un processo che permette ad individui, gruppi e comunità di accrescere le capacità di controllare attivamente la propria vita, cui contribuiscono una consapevolezza critica sul sistema sociale in cui si è inseriti e un’azione collettiva attiva e partecipata che mobilita e arricchisce le risorse non sono personali, ma anche comunitarie. Si intuisce facilmente come il modo in cui ogni famiglia educa i propri figli influisca non solo sul livello del microsistema-famiglia, ma coinvolga e influenzi anche tutte le dimensioni più esterne con cui direttamente, o indirettamente, ci interfacciamo (Bronfenbrenner, 1986).
Un recente studio condotto dalle università di Austin e del Michigan ha confrontato 50 anni di letteratura sul tema, con coinvolti 160.000 bambini. Lo studio ha rilevato la presenza a lungo termine nei bambini sottoposti più volte a sculacciata “educativa” di comportamenti contrari a quelli auspicati dai genitori attraverso la punizione corporale. Inoltre, la ricerca dimostra che sculacciare o picchiare un bambino ha, su di lui, la stessa valenza psicologica, seppur in forma ridotta, di abuso e maltrattamento. Che, alla mie orecchie, non suona come “allora si può fare”. Perchè è ugualmente un abuso fisico che comporta un trauma.
Dal punto di vista fisiologico, infatti, gli effetti su un bambino dello stress prodotto dalla minaccia di percosse e dalle percosse stesse riguardano uno squilibrio nella regolazione degli ormoni dello stress, che non possono svolgere la loro normale funzione di far fuggire dall’aggressore o difendersi dallo stesso (pensiamoci: può un bambino, pur sentendosi minacciato, pensare di sopravvivere scappando dalla figura adulta di riferimento?!?); gli ormoni, che non possono essere quindi adeguatamente impiegati, diventano tossici e attaccano il sistema digestivo e alcune parti del cervello. Inoltre, alcune ricerche hanno dimostrato che “i bambini continuano a reagire con lo stesso livello di tensione a situazioni stressanti già sperimentate” (A. Oliviero Ferraris, 2005).
Insomma, non si abituano. Nel 2013 è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista “Pediatrics” uno studio che indaga la correlazione tra le punizioni corporali, in assenza di altre forme più gravi di maltrattamento, e disagi psicologici nell’età adulta: il risultato è che c’è una frequenza maggiore di problemi fisici (come malattie cardiocircolatorie e obesità) e compromissione nell’Asse I e II dei disturbi mentali (DSM-IV, Asse I: Disturbi Clinici, come disturbi dell’alimentazione, della dipendenza da sostanze, disturbi d’ansia, disturbi dell’umore; Asse II: Disturbi di Personalità).
I social sono un fertile terreno di dibattito e confronto, ma è facile che si costruisca attorno all’utente una sorta di membrana protettiva che ne abbassa le inibizioni e gli imbarazzi nell’esprimere il proprio parere, portando ad un’espressione spesso istintiva ed aggressiva della stessa. Questo, però, non ci esime dal timore dell’opinione, o piuttosto del giudizio, che chi frequentiamo nella realtà avrebbe di noi qualora scegliessimo di promuovere ed abbracciare uno stile educativo non violento: “E se poi mio figlio ne combina di ogni? Se quando usciamo è un disastro e non si sa comportare? Se la colpa è mia che non gliene ho date 4 quando le meritava?”
La nostra immagine sociale è influenzata infinitamente dal giudizio reale o ipotizzato che gli altri hanno di noi, e ciò compromette la capacità di autoanalisi ed autocritica che ogni genitore può fare su di sé e sul proprio modello educativo, trincerandosi dietro un attaccamento cieco e acritico al modello educativo promosso dai padri e dai nonni, come se fossero l’oracolo della buona riuscita degli adulti 2.0.
Il passato rassicura, il passato vincola. Da lì veniamo, ma è controproducente e asincrono perpetrare ciò che ci è stato trasmesso senza valutare le risorse del nostro tempo (diffusione dell’informazione sul web, blog, forum..) e senza riconnetterci alle emozioni che abbiamo provato da bambini. Come possiamo chiedere a nostro figlio di controllarsi se, presi dall’ira, gli scaraventiamo addosso tutta la nostra frustrazione? Per il bene di chi lo si fa? Esplorare la storia di ciascuna famiglia permette di navigare nell’ oceano di ricchezze e sorprese di cui essa è portatrice, ed è la matrice da cui partire per incanalare una forza unica e antica nell’affrontare problemi odierni, diventa soluzione attraverso una comprensione profonda e attualizzata di ciò che è stato, così che possa essere guida per genitori, nonni, fratelli, trasformando episodi critici da blocco a forza propulsiva per portare nuove energie alla famiglia. Maurizio Andolfi, che da 40 anni lavora con i bambini e le famiglie, descrive così la psicologia familiare: “Ci piace pensare che la famiglia sia la migliore medicina per i bambini: basta trovarla, agitarla bene e poi somministrarla nei dosaggi e nelle modalità più appropriate al bisogno” ( M. Andolfi in P.Crepet, 2010). La migliore strategia educativa che possiamo applicare con i nostri bambini è ciò che costruiamo da prima ancora della loro nascita e che continueremo ad accrescere ogni giorno: la relazione con loro.
Nel 2001 Meredith Small, antropologa statunitense, pubblicava su Kids un interessante articolo in cui confrontava costruttivamente le diverse modalità di accudimento ed educazione nelle varie società del pianeta, suggerendo che uno sguardo aperto e critico a ciò che accade al di fuori del nostro giardino può offrire spunti e alternative coerenti ed efficaci nella gestione di situazioni relazionali complesse, e che ciò che è normalizzato e legittimato nella nostra cultura, come le sculacciate o le percosse fisiche in caso di disobbedienza, rappresentano una forma di stress che non è socialmente accettato in altre società.
Il rischio del difendersi da ogni proposta di accoglienza ed ascolto empatico, che si discosta dall’abituale forma mentis educativa, è di privare noi stessi e i nostri figli di pezzi positivi di noi adulti e genitori, capacità e risorse di cui possiamo non essere consapevoli ma che, se coltivate, rappresentano un bagaglio di autostima ed energie cui i nostri figli potranno attingere durante il loro sviluppo, e che consentiranno a noi adulti, cardine attorno a cui ruotano i bambini, di poterli accompagnare con consapevolezza e consistenza.
Mi è stato detto: “Ma allora gli facciamo fare quel che vuole? Ma così non imparano mai le regole! Questi figli cresceranno bamboccioni!” Ritengo utile sottolineare ancora la profonda e difensiva confusione che si fa tra ascoltare e far fare ai bambini quello che vogliono.
Il genitore ha la responsabilità morale, educativa e giuridica di guidarlo e accompagnarlo nel rispetto delle sue capacità ed inclinazioni. Ciò di cui leggete non è una tendenza new age ad essere tutti buoni e cari, ma un tema fondante della nostra civiltà, ampiamente discussa e costantemente revisionata dalle più alte istituzioni che tutelano i diritti dei bambini e dell’umanità. <<Nell’Osservazione generale 13 (2011), adottata il 18 aprile del 2011, dedicata all’art. 19 della Convenzione sui diritti del bambino, il Comitato, riprendendo il Rapporto mondiale sulla violenza contro i bambini (Pinheiro, 2006), identifica le seguenti forme di violenza contro i minori d’età: trascuratezza e abbandono; violenza psicologica; violenza fisica; abuso e sfruttamento sessuale; tortura e trattamenti o punizioni assimilabili; pratiche pregiudizievoli; violenza dei mass-media; violenza mediata dalle tecnologie informatiche; violazioni sistematiche dei diritti dell’infanzia compiute dalle istituzioni. Le “punizioni corporali” si collocano tra le manifestazioni di “violenza fisica” e costituiscono anche delle “pratiche pregiudizievoli”, alla stregua, per esempio, dei matrimoni forzati di bambini o delle mutilazioni genitali femminili. Secondo l’Unicef si tratta di una modalità di “violent child discipline” (Unicef, 2010)>> (Dossier-L’ifanzia, P. De Stefani, 2012). Siamo oltre l’ottica populista che “ognuno a casa propria fa come vuole”. Durante le fasi di passaggio è fisiologico ci sia un disorientamento, non si sappia cosa fare, non ci si riconosca o si possa preferire ciò che già si conosce piuttosto che sperimentare modalità diverse.
Spesso vengono chiesti consigli pratici: in un’altra occasione io stessa ne ho forniti alcuni, e ci sono colleghi che come me si impegnano a diffondere spunti di riflessione per un’educazione soddisfacente e rispettosa delle emozioni, sia dei grandi che dei bambini. Saper ascoltare e sapersi ascoltare non significa essere delle pappemolli, nè avere la risposta pronta in tasca: è una dialettica continua, un confronto costruttivo col fine di realizzare concretamente un clima il più favorevole possibile ad una crescita sana e serena delle famiglie.
L’augurio, quindi, è che ogni genitore, di ogni microcosmo familiare, il faro di ogni bambino nelle nostre case, possa essere il Prometeo della sana visibilità del proprio figlio, foriero di una relazione presente, autorevole ed empatica.”
LEGGI ANCHE QUI I bambini hanno diritto di fare i Capricci
Riferimenti:
http://pediatrics.aappublications.org/content/132/2/e333
http://www.telegraph.co.uk/science/2016/04/26/why-you-should-never-spank-a-child—major-research-project-conf/?cid=sf25084352&sf25084352=1
http://www.human-nature.com/nibbs/05/small.html
Dossier – L’infanzia: ojs.pensamultimedia.it/index.php/studium/article/viewFile/567/547
BRONFENBRENNER U. (1986), Ecologia dello sviluppo umano, Il Mulino, Bologna
CREPET P. (a cura di), 2010, Perchè siamo infelici, Einaudi, Torino
ESCHILO, Prometeo incatenato, ed.Bur, 2006, pag. 259
OLIVIERO FERRARIS A. (1995), Dai figli non si divorzia, Rizzoli
RAPPOPORT J. (1981), “In praise of of paradox: a social policy of empowerment over prevention”, in American Journal of Community Psychology, 9, pp 1-26